Le popolazioni target nelle sperimentazioni cliniche. In un editoriale su JAMA un’analisi dei nuovi orientamenti - Le popolazioni target nelle sperimentazioni cliniche. In un editoriale su JAMA un’analisi dei nuovi orientamenti
Le popolazioni target nelle sperimentazioni cliniche. In un editoriale su JAMA un’analisi dei nuovi orientamenti
Gli studi clinici hanno come obiettivo la valutazione della sicurezza, della tollerabilità e dell’efficacia di nuovi farmaci o associazioni di farmaci o di nuove strategie terapeutiche. Affinché possa ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio da parte dell’autorità regolatoria e quindi essere disponibile sul mercato per i pazienti che ne abbiano realmente bisogno, il farmaco deve quindi essere sottoposto alle diverse fasi della sperimentazione clinica, che vedono coinvolti diversi target di popolazione.
La definizione della popolazione in studio è uno passo fondamentale, dal quale può dipendere il buon esito di uno studio e quindi il destino di una molecola. Per chi investe su un farmaco si tratta di una scelta economica cruciale, che ha però anche un delicato risvolto etico. Il tema è oggetto di un editoriale dal titolo “Modern Drug Development. Which Patients Should Come First?” a firma di Muthiah Vaduganathan (1Department of Medicine, Massachusetts General Hospital, Harvard Medical School, Boston, Massachusetts) e Vinay Prasad (Bloomberg School of Public Health, Johns Hopkins University, Baltimore, Maryland) apparso di recente su JAMA.
Storicamente, le nuove molecole sono state introdotte di solito nei pazienti con stadi di malattia avanzati – osservano gli Autori – In caso di esito positivo, ne è stata chiesta l'approvazione, mentre gli studi successivi hanno definito il ruolo del farmaco nelle forme meno gravi o precedenti della malattia, in sottogruppi importanti e anche come chemioprevenzione. Tuttavia, studi recenti nella medicina cardiovascolare e oncologica hanno messo in discussione questo approccio; per molti nuovi farmaci oggi si cerca di stabilire la sicurezza e l'efficacia negli stadi precoci della malattia.
Lo spostamento della popolazione target iniziale solleva interrogativi su quale sia il protocollo ottimale: il passaggio a stadi precoci della malattia è un bene per i pazienti? Questa tendenza recente ha un razionale biologico o deriva dal desiderio degli sponsor di acquisire una quota di mercato maggiore? I regolatori dovrebbero richiedere la dimostrazione che una terapia funzioni negli stadi avanzati? Sono alcuni degli interrogativi cui Vaduganathan e Prasad provano a dare una risposta commentando la conduzione e gli esiti di alcuni studi recenti.
Valutare i nuovi farmaci negli stadi avanzati della malattia è stato per molto tempo un modello di scoperta di farmaci per i pazienti con insufficienza cardiaca. Negli ultimi 2 decenni, i programmi di sviluppo di inibitori dell'enzima di conversione dell'angiotensina, β-bloccanti e antagonisti del recettore dei mineralcorticoidi inizialmente hanno valutato i pazienti con stato funzionale scarso, ad esempio, i pazienti con sintomi di insufficienza cardiaca della classe funzionale III e IV NYHA(New York Heart Association).
Consideriamo ora lo sviluppo di un nuovo farmaco per l’insufficienza cardiaca. In una sperimentazione di fase 3 recentemente completata, sacubitril, un inibitore della neprilisina, ha migliorato la sopravvivenza globale quando somministrato in associazione con valsartan rispetto a un gruppo di controllo che ha ricevuto enalapril. Lo studio è stato interrotto precocemente dopo un follow-up mediano di 27 mesi perché, secondo le regole pre-specificate, era stato superato il confine di un vantaggio schiacciante dell’LCZ696 (sacubitril + valsartan) sull’ enalapril.
“Tuttavia – osservano gli Autori dell’editoriale – i criteri di interruzione sembrano essere stati guidati dai benefici osservati soprattutto nei pazienti con scompenso cardiaco di classe II NYHA, perché meno dell'1% dei pazienti con sintomi di classe IV NYHA e meno del 25% con sintomi di classe III erano stati arruolati al momento dell’interruzione dello studio. Infatti, l'analisi dell'interazione rivelava differenze significative nell’end point primario tra i pazienti con sintomi di classe III e IV NYHA, suggerendo che i pazienti con scompenso cardiaco di classe II NYHA potessero non beneficiarne allo stesso modo”.
“Lo sviluppo contrastante di trastuzumab emtrancine (TDM-1) e pertuzumab illustra le conseguenze della decisione del produttore riguardo dove iniziare lo sviluppo di un farmaco. Entrambi gli anticorpi sviluppati contemporaneamente da Roche/Genentech, mirano al recettore ERBB2. TDM-1 è stato inizialmente testato come terapia di seconda linea, mentre pertuzumab è stato testato come terapia di prima linea per cancro al polmone metastatico ERBB2 positivo. Studi registrativi pilota condotti per l’approvazione hanno arruolato 991 pazienti (TDM-1) e 808 pazienti (pertuzumab). Poichè TDM-1 è stato sviluppato negli stadi più avanzati della malattia, il trial ha dimostrato un beneficio di sopravvivenza globale in un follow-up di 19 mesi. Quarantacinque mesi sono trascorsi dalla data del primo arruolamento alla pubblicazione dei risultati. Al contrario – proseguono gli Autori – pertuzumab è stato sviluppato in uno stadio precoce della malattia. Un vantaggio di sopravvivenza globale non è stato dimostrato fino al follow-up mediano di 30 mesi e la pubblicazione dello studio che segnalava il risultato è apparsa 63 mesi dopo l’arruolamento del primo paziente. Anche se lo studio pertuzumab è stato avviato un anno prima dello studio TDM-1, il rapporto tra i risultati di sopravvivenza è apparso solo diversi mesi dopo. Anche benefici in termini di sopravvivenza libera da progressione si sono registrati più rapidamente con TDM-1. È improbabile – sostengono quindi gli Autori – che il razionale biologico giustifichi la decisione di valutare i farmaci in diverse popolazioni, perché pertuzumab sembra attivo anche quando utilizzato come terapia di seconda linea”.
“In generale, i pazienti con patologie avanzate hanno il più alto rischio di esiti scarsi come la morte o la recidiva, pur avendo ricevuto le terapie disponibili – commentano Vaduganathan e Prasad - In questa popolazione ad alto rischio è più probabile che si verifichino eventi di interesse, diminuendo gli effetti dei rischi concorrenti. Ad esempio, nei pazienti con insufficienza cardiaca di classe IV NYHA, i fattori cardiovascolari sono una delle principali cause di morte, mentre altre cause concorrenti giocano un ruolo più importante nella malattia più lieve. Perciò, concentrarsi su pazienti ad alto rischio può aumentare la potenza dello studio, consentendo di completare i protocolli in un tempo più breve. Ridurre l'intervallo tra la scoperta di nuovi farmaci e l'impiego nella pratica clinica è un chiaro vantaggio e un obiettivo dichiarato nello sviluppo dei farmaci. Programmi tradizionali seguono un approccio biologicamente coerente agli obiettivi di validazione di un farmaco. Nell'insufficienza cardiaca, una maggiore attivazione neuro-ormonale in pazienti con scompenso cardiaco di classe III e IV NYHA rende questa tipologia di pazienti un bersaglio attraente per la valutazione iniziale di nuove terapie”.
“Criteri di inclusione ampi, come quelli dello studio sull’inibitore della neprilisina, - proseguono gli Autori – teoricamente dovrebbero acquisire una vasta gamma di profili di pazienti. Tuttavia, nonostante le migliori intenzioni, alcuni gruppi possono essere sottorappresentati. I pazienti "più gravi" possono essere più “impegnativi” da arruolare, perché presentano più frequentemente malattie concomitanti. Non è noto se questi pazienti complessi con malattia avanzata potrebbero sperimentare lo stesso effetto negativo come quelli con malattia più lieve. In uno studio precedente su inibitori della neprilisina nello scompenso cardiaco, la bassa pressione arteriosa sistolica, che in genere è più comune nei pazienti con sintomi di classe III e IV NYHA, è stato un fattore determinante per la frequenza di eventi avversi, tra cui ipotensione e insufficienza renale. Così, anche se questi grandi studi supportano la sicurezza dei farmaci in una popolazione generale di pazienti con insufficienza cardiaca- affermano gli Autori – non riescono a fornire elementi utili sulla sicurezza in quelli più vulnerabili agli effetti collaterali e sui rischi che ne conseguono”.
“Da un punto di vista pragmatico – proseguono – i programmi di sviluppo di farmaci condotti in popolazioni ampie sono poco in grado di dare priorità ai pazienti che devono iniziare la terapia prima. Se fornita indipendentemente dal rischio, una nuova costosa molecola first-in-class può sopraffare i bilanci sanitari. Nella gestione dell'epatite C, terapie farmacologiche innovative ampiamente indicate per la maggior parte dei pazienti con epatite C cronica, come il Sofosbuvir, costano circa 1.000 dollari per pillola, presentando le principali sfide di costo per l’implementazione e la distribuzione del farmaco. Nel tentativo di bilanciare l'accesso e la sostenibilità, le recenti linee guida di pratica clinica sull’epatite C hanno incoraggiato l'uso di questi farmaci soprattutto nel sottogruppo di pazienti più gravi. Nell’attuale contesto finanziario – proseguono – studi clinici emergenti dovrebbero considerare la selezione dei gruppi a più alto rischio come guida per un approccio economicamente conveniente e pratico per l'utilizzo del farmaco”.
In ultima analisi, i nuovi farmaci che raggiungono il mercato devono essere testati in gruppi che rispecchino da vicino la popolazione del mondo reale in generale e importanti sottogruppi ad alto rischio. Le recenti modifiche nel protocollo della Food and Drug Administration (FDA) richiedono agli sviluppatori di aumentare l'inclusione negli studi dei pazienti più gravi con comorbidità multiple. Se invece il trend attuale continua, - affermano gli Autori – si dovranno prendere misure per garantire che gli studi forniscano informazioni sulla sicurezza e l'efficacia nei pazienti più gravi. Oltre a un'analisi complessiva di potenza, gli obiettivi di reclutamento devono essere stabiliti per importanti sottogruppi ad alto rischio. Allo stesso modo, prima di interrompere anticipatamente un trial secondario rispetto al beneficio di un farmaco, dovrebbe essere stato arruolato ed esposto al farmaco un numero sufficiente di pazienti con malattia avanzata. Sono richiesti programmi robusti per fornire i dati di sicurezza adeguati a giustificare l'esposizione al farmaco in studio di pazienti con malattia in stadio precoce”.
“Gli studi clinici randomizzati sono il test principale per le nuove terapie – concludono gli Autori – I farmaci in studio sono tradizionalmente valutati nei pazienti più gravi e poi sviluppati a tappe in una popolazione più generale. Tendenze recenti hanno deviato da questo approccio. L’interesse crescente per lo sviluppo di mercati ampi per molecole first-in-class ha sollevato nuove domande e preoccupazioni per quanto riguarda l'applicabilità clinica di questi farmaci. È tempo di tornare a un approccio per lo sviluppo di farmaci incentrato sul paziente e di offrire nuove terapie innovative in primo luogo ai pazienti che ne hanno più bisogno”.
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Pubblicato il: 16 dicembre 2014