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Big data e futuro della medicina. Le sfide per il medico del XXI secolo
Ogni giorno migliaia di nuovi articoli scientifici vengono pubblicati sulle riviste accreditate, centinaia di dati vengono prodotti da strumenti diagnostici e l’aumento dell’aspettativa di vita alla nascita fa sì che siano sempre di più le persone affette contemporaneamente da più patologie, per sconfiggere le quali devono assumere diverse terapie contemporaneamente. La complessità delle sfide che attendono la medicina moderna potrebbe essere riassunta da questi fattori che esemplificano il problema di fondo, l’inadeguatezza della mente umana nell’affrontare problemi di portata sempre più grande.
Della questione si occupano, in un editoriale1 apparso sul New England Journal of Medicine, Ziad Obermeyer e Thomas Lee, rispettivamente del Brigham Women’s Hospital e della Harvard Medical School del Massachussets.
Il medico di oggi, argomentano gli autori, è “perso nel pensiero”. I pazienti continuano ad esigere semplici risposte ma nel frattempo ciascuno di loro si è trasformato in una piccola centrale di produzione di “big data” che devono essere analizzati, contestualizzati e infine interpretati. Un compito improbo per una singola mente e non risolvibile, ammoniscono Obermeyer e Lee, ricorrendo a metodiche del passato, come il semplice confronto fra più dottori sulla situazione clinica e la conseguente soluzione da adottare.
Il primo passo da compiere è riconoscere l’esistenza della disparità tra le abilità della mente umana e la complessità della medicina moderna. Lo stesso passaggio concettuale che ha portato alla creazione degli strumenti diagnostici (microscopi, stetoscopi, elettrocardiogrammi e radiografi), nati per supplire alle limitate possibilità dell’apparato sensoriale umano.
Oggi stiamo entrando in un’epoca diversa, un’era digitale in cui il paziente è (o sarà molto presto) capace di produrre quantità enormi di dati sulla sua salute, quantificabili in petabyte, attraverso dispositivi, in particolare quelli mobili, e applicazioni dedicate. Un mondo in cui dall’Internet che conosciamo oggi si passerà a una versione ancora più fluida, ancora più interattiva, che viene comunemente chiamata “Internet delle cose”.
Per guidarci in questo “mare magnum” la speranza risiederà nei computer, in quelle stesse macchine che troppo spesso la comunità scientifica e i clinici in particolare guardano con diffidente sospetto, ma che potranno essere in futuro alleati nella difficile sfida di sintetizzare i dati a nostra disposizione, senza mai però dimenticarsi dell'interazione reale e concreta nel rapporto medico-paziente?
Potenzialmente attraverso l’uso degli algoritmi sarà alla nostra portata analizzare un flusso di informazioni costante e di notevoli dimensioni, come, suggeriscono gli autori sul NEJM, ogni singolo battito del cuore di un paziente, mettendo in luce variazioni microscopiche che sfuggirebbero all’occhio e alla mente del miglior cardiologo, permettendo forse la prevenzione di eventi cardiaci potenzialmente letali.
Gli algoritmi e la capacità di apprendimento delle macchine sono oggi al centro degli sforzi dei ricercatori nei centri accademici di tutto il mondo, domani costituiranno le fondamenta della nuova medicina.
La scelta per la comunità medica è semplice, permettere che il cambiamento venga imposto dall’esterno, da discipline affini ma diverse o abbracciarlo e guidarlo dall’interno? In quest’ultimo caso, l’unico auspicabile, sarà importante rivedere le priorità e le linee guida a livello formativo, per mettere i nuovi professionisti del mondo della medicina in condizione di concepire e guidare lo sviluppo di algoritmi ad hoc. I medici dovranno necessariamente porsi alla testa della rivoluzione che interesserà il loro settore, decidendo le priorità per la ricerca e controllandone l’evoluzione giorno dopo giorno.
Lasciare queste prerogative a ricercatori provenienti dall’informatica applicata o da altre discipline depaupererebbe notevolmente lo sviluppo dei nuovi strumenti.
Non bisogna mai dimenticare che alla base della miriade di dati conservati nei record elettronici o nella cartella clinica tradizionale vi sono sempre e comunque decisioni umane. La scelta del paziente di cercare una cura, quella del medico di prescrivere un test o una terapia. Nell’interpretazione dei dati sistematizzati e organizzati dalla macchina in base a un algoritmo non può quindi mancare l’occhio del medico che è cosciente delle molte variabili che conducono a una decisione clinica.
Per questo occorre vedere nelle macchine e negli algoritmi dei compagni di viaggio che affiancano, ma non sostituiscono, i medici nella loro attività quotidiana. Si tratterà di medici ancora più formati, specializzati in analisi dei dati e biostatistica, fluenti anche nei linguaggi di programmazione. Strumenti indispensabili per orientarsi nella complessità del ventunesimo secolo e continuare a offrire valore aggiunto a pazienti molto diversi da quelli a cui siamo abituati ma portatori della medesima domanda di salute.
Mario Melazzini
Leggi l’articolo di Obermeyer e Lee
1. Lost in Thought — The Limits of the Human Mind and the Future of Medicine, Ziad Obermeyer, M.D., and Thomas H. Lee, M.D., N Engl J Med 2017; 377:1209-1211, DOI: 10.1056/NEJMp1705348
Pubblicato il: 11 ottobre 2017